Omaggio a Montale (1966)

«La Rassegna della letteratura italiana», a. LXX s. VII, n. 2-3, Firenze, maggio-dicembre 1966, pp. 225-226; poi in W. Binni, Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento cit. e in W. Binni, Poetica e poesia. Letture novecentesche cit.

Omaggio a Montale

Siamo qui riuniti[1] in una cerimonia semplice e solenne, affettuosa e civile, a rendere omaggio (in tale prospettiva si inquadra il mio breve discorso che non è un saggio critico e una conferenza, ma appunto un motivato atto di omaggio) ad Eugenio Montale nell’occasione dei suoi settanta anni, scrittori e critici di generazioni diverse, dalla sua a quella dei giovani e dei giovanissimi, rappresentanti della cultura fiorentina ed italiana, della politica e del governo italiano, nella sede del Gabinetto Vieusseux, civilissimo luogo di incontro nazionale ed internazionale e che, piú di ogni altro luogo fastoso e monumentale, è stato giustamente scelto per questo atto di riconoscenza e di onore ad un grande poeta, ad un protagonista della nostra storia letteraria ed etico-sociale, il quale si trovò ad essere direttore appunto del Gabinetto Vieusseux in anni amarissimi per lui e per il nostro paese, e che da quel suo impiego fu poi espulso per la sua tenace, strenua fedeltà alle idee della libertà e della dignità personale, letteraria e civile.

Una fedeltà esercitata con quella superiore semplicità, con quel riserbo e quella «decenza quotidiana»[2], con quella vocazione antiretorica ed antiesibizionistica dell’uomo e del letterato di cui anche chi allora non l’abbia conosciuto e frequentato può cogliere il tono essenziale nella lettura della breve prosa Il colpevole (pubblicata nel 1947 col sottotitolo Quasi una fantasia nel numero unico «Il Ponte rosso» di Trieste, ripubblicata quest’anno da Scheiwiller), tutta cosí volutamente smorzata e dolorosamente ironica e satirica, e pur cosí lucidamente severa e giudicatrice di uomini, comportamenti e costumi di un tempo storico. E perciò tanto piú esemplarmente calcolata in quella direzione, nel taglio breve, nel movimento minuto e quasi marionettistico (fra i due vecchi impiegati, la cieca e ottantenne Lady avida di romanzi gialli, i valletti farseschi dell’anticamera podestarile, la maschera prismatica dell’Uomo, «unico uomo al quale in quegli anni toccasse l’onore della lettera maiuscola», la figurina neutra del podestà, conte Penzolini, «alto, sbarbato, grigi gli occhi di pesce», il suo rigido saluto romano e l’imitazione «alla meglio» del «colpevole»), nel dialogo fra i due (il periodare ed il lessico «ufficiale» dei gerarchi: «mettersi al passo coi tempi», «le regolari consegne», «l’elementare requisito», fino al finale minaccioso militar-banditesco: «noi spareremo basso», e l’incontro delle brevi frasi, fra timidezza e sorpresa audacia, del «colpevole»), nell’amaro, consapevole autoritratto del protagonista che, dopo quel colloquio decisivo riprende a scrivere la letterina allo sconosciuto di Seattle per esaudire la sua richiesta circa la sopravvivenza o meno in Firenze del pedicure Fruscoli, riprende a esercitare il suo dovere di mantener viva «una tradizione di cortesia (non piú che questo) che da quel giorno sarebbe stata interrotta»[3].

Ora il «colpevole» di allora ritorna nella nuova sede del Gabinetto Vieusseux, in un tempo, malgrado tutto, pur cambiato, se intorno a lui, per la sua grande poesia, che anche da quelle «colpe» fu profondamente alimentata, letterati di diverse tendenze, scrittori, critici di varie generazioni e, ripeto, persino rappresentanti del governo, sono qui raccolti per testimoniargli la loro ammirazione, il loro affetto, il loro inesauribile debito, insieme a quanti hanno voluto inviare messaggi di non convenzionale adesione, dagli scrittori piú validi agli uomini piú nobili della coscienza nazionale e civile. A lui rivolgono piú particolarmente il loro concreto omaggio, offrendogli un fascicolo a lui dedicato, gli scrittori raccolti di nuovo in «Letteratura»: la rivista che, negli anni dell’immediato anteguerra, accomunò poeti, narratori, critici, che, di varia origine ed ispirazione, si riconoscevano in una fondamentale fede nella «letteratura» (il senso alto e nobile di una parola come tante, suscettibile di portare in sé valori e disvalori): in una «letteratura» che si proponeva di recare «con i modi e i mezzi che sono quelli del mestiere letterario (e della profonda coscienza dei suoi doveri) il proprio contributo al progresso della cultura italiana»[4]: parole semplici e serie (dovute all’amico Bonsanti) in cui poteva riconoscersi anche Montale, che non per caso nel primo numero, gennaio 1937, di quella rivista, pubblicò due delle sue poesie di Occasioni.

In quell’apparente «disimpegno» (un’altra delle parole bivalenti e polivalenti del nostro tempo) viveva in molti (anche se non ugualmente in tutti) dei collaboratori di quella rivista (già collaboratori di «Solaria» o giovanissimi, allora, confluenti da diverse esperienze e tradizioni) un ben chiaro «impegno» assai diverso – a ben guardare – da ogni posizione di evasione e di idillio letterario, sí che molti di essi potevano già piú o meno esplicitamente avvertire in Montale e nella sua poesia la coscienza poetica e non solo poetica (ma tutta poeticamente consolidata) del loro tempo e, in parte, del loro futuro: la poesia di «quella» nozione di letteratura, la poesia delle loro sofferte e maturanti esperienze ed esigenze, l’espressione di una profonda opposizione al tempo della dittatura e, piú profondamente, a tutte le sue radici culturali, letterarie e morali.

Di tutto ciò è chiara testimonianza à rebours (come è testimonianza ancora piú esplicita di un rapporto profondo dei collaboratori di questo numero della nuova «Letteratura» con Montale e la sua grande poesia) il fascicolo che oggi offriamo a Montale. Fascicolo foltissimo di scritti e presenze che, mentre costituiscono, nel loro insieme, un contributo vario allo studio del problema critico montaliano, vanno considerate anche in una prospettiva assai importante per chi voglia verificare l’attuale identificazione e valutazione del posto e della presenza di Montale nella storia letteraria (con le sue chiare implicazioni civili e morali) del nostro Novecento e tout court dello sviluppo della nostra tradizione moderna.

Ad un verificatore obbiettivo, anche se tutt’altro che neutrale e puramente statistico (e quando mai la critica e la stessa storia della critica può ridursi a pura statistica e fotografia?), la convergenza di fatto di tante testimonianze, di tanti saggi lunghi o raccorciati in tante diverse angolature, culmina in una ben significativa adesione critica ed attiva (e non mai solo «sentimentale», se pure anche questo aspetto non è da sottovalutare rispetto alla stessa capacità di Montale di suscitare un tale moto di «simpatia» nel senso piú intero della parola, cosí forte da superare chiaramente gli entusiasmi consueti di simili occasioni, con un’apertura degli animi nei loro strati piú intimi e gelosi), culmina, dicevo, in una consistente, non inutile riprova di un fatto ormai incontestabile.

In forza dello sviluppo della critica, nel ricambio fra il problema singolo e quello della generale epoca novecentesca, in forza dello stesso sviluppo della poesia montaliana sino ai suoi esiti piú recenti (e la capacità di sviluppo è propria dei veri poeti, dei poeti autentici e colti, dei poeti che hanno grossi nuclei in divenire, non dei poeti rapsodici e solo istintivi e rattratti in un’occasione giovanile e «primitivistica»), in forza della penetrazione e incidenza della poetica e della poesia montaliana per mezzo dalla sua stessa attiva sollecitazione di problemi e linguaggi poetici delle nuove generazioni, e della tramutazione di poetica operata dall’incidenza possente della poetica e poesia di Montale fino a certo possibile montalismo del Saba di Parole da me segnalato[5] (tutti fatti inseparabili, anche se da studiare con graduazioni e articolazioni entro un intero, denso contesto ed intreccio di poesia, critica, storia), la valutazione e la collocazione storico-critica dell’opera montaliana (poesia, prosa e critica in una fortissima interrelazione che non priva di originalità particolare le varie direzioni, ma trova il suo esito supremo nella poesia) si è venuta imponendo, chiarendo, consolidando saldamente ben al di là di precedenti, possibili simili costatazioni a date diverse e successive in una storia che occorrerà una volta ben definire come uno degli aspetti della nostra storia letteraria contemporanea, in relazione ad uno dei suoi problemi critici piú centrali e importanti data la stessa centralità e importanza della personalità poetica che ne è promotrice ed oggetto.

Senza timore di sproporzioni, e di ingiusti livellamenti al basso, di un’epoca ricca di personalità, di tensione e valori (ma le scelte decise sono essenziali alla critica e alla storia letteraria degne di questo nome e valgono insieme per la comprensione del passato e per l’orientamento nel presente) ben risulta, fin quasi ovviamente ormai, che Montale ha preso da tempo uno spicco, un rilievo di assoluta centralità e prevalenza, una misura di grandezza e di profondità che nessuna, per quanto impazzita, «trottola del gusto» potrà prevedibilmente annullare, pur in un tempo letterario, come l’attuale, cosí avventuroso e vorace.

Certo all’epoca della prima apparizione di Ossi di seppia (fra l’edizione gobettiana del ’25 e quella del ’28 e del ’31) la stessa novità rivoluzionaria della poesia montaliana (e d’altra parte lo speciale modo della sua ripresa della tradizione), lo scontro con l’epoca dell’esaltazione e della «poesia pura» e dei supremi «valori fonici», del genere lirico, l’urto confuso tra «formalisti» e «contenutisti», le forti conclusioni sulla identità dell’«homo poeticus», le diverse ragioni della poesia ermetica in formazione e dei vari tipi di silenzio e delle evasioni dagli impegni letterari e lirici, la generale difficoltà della identificazione e comprensione dei valori entro l’immediata zona contemporanea (si ricordi, del resto, almeno la difficoltà di affermazione di un Foscolo e degli stessi Sepolcri «fumoso enigma», di fronte al Pindemonte, al Monti e magari ai vari Arici) poterono provocare giudizi diversi, e a volte fortemente discordi, fra la eccezionale intuizione del Solmi che seppe guardare subito al fondo della poesia montaliana «intatto, compatto, necessario» e alcune stupefacenti osservazioni circa un poeta «non nuovo». E spesso la giustificazione stessa della poesia di Ossi di seppia fu data in altra chiave dalla sua, nella ricerca o nella negazione della sua qualità di «canto», o in identificazioni e scelte di elementi non centrali di quella poesia (il prezioso arabesco del fulmine nel cielo della sera in Arsenio), cosí come ora può accadere che si scambi il complesso «snobismo»[6] di Montale (componente pur vera della sua difficile operazione artistica) con i centri piú profondi della sua poesia complessa, ma non «ambigua» e non cosí da «aggiornare» (se cosí può dirsi) al di fuori della sua storia e realtà effettiva.

Né mancarono ancora (per star solo a certi momenti di fronte allo sviluppo piú stimolante e profondo della critica nell’epoca di «Letteratura» e delle Occasioni) incomprensioni, livellamenti e associazioni di vario valore, diagnosi di esaurimento della poesia montaliana in Occasioni, quale coronamento ed esaurimento dell’ermetismo tout court .Tutto ciò, nel dopoguerra e nel periodo del neorealismo e dell’engagement, corrispondeva anche ad una volontà poetica che, pur interessantissima e appoggiata a testi ben vivi fra Vittorini e Pavese, poteva oscillare fra i pericoli della poesia-manifesto e l’aspirazione ad un tipo di poesia, profonda e specifica espressione di storia (magari contro una certa storia) di cui, viceversa, Montale stava proprio allora fornendo ancora piú alte e nuove realizzazioni poetiche.

Né mancò, in anni ancora piú recenti, sul testo edito della Bufera, negli anni della guerra fredda e dell’urto fra inizio di «disgelo», neocapitalismo e piú forte manifestarsi di tendenze critiche e artistiche ferme soprattutto sui problemi del linguaggio e delle tecniche, un non sempre chiaro scontro fra chi non trovava storia e realtà nella nuova poesia montaliana – accettandone invece il percorso fino ad Occasioni incluse – e chi esitava di fronte ad una poesia apparentemente ripetitoria quanto a strumenti linguistico-stilistici.

Ora, pur con riflessi delle piú recenti querelles su Montale, la situazione di fondo è fortemente consolidata ed è dato ritrovare convergenze assai profonde specie tra coloro che, pur con diverse prospettive, sostanzialmente puntano soprattutto e anzitutto su quel fondo di problemi vivi tutti poeticamente espressi, su quella singolare storicità del poeta in quanto tale, a cui la realtà del poeta Montale dà un’alta risposta. Cosí come la danno, in sede di poetica e critica, le stesse piú centrali affermazioni sulla poesia, sulla critica e sui loro problemi da parte di Montale, il quale si è giustamente sentito e dichiarato sempre contemporaneamente «poeta» e «critico» (sulla linea di un Baudelaire, di un Eliot, di un Valéry)[7], e ci ha dato un ingente materiale da ben valutare e studiare sia anzitutto e soprattutto in rapporto alla sua poetica, sia per gli esiti critici particolari, dalla rivelazione di Svevo ai bellissimi giudizi su poeti anglosassoni moderni e contemporanei, sia per il riconoscimento di una sincera ed energica capacità di iniziativa critica del Nostro, importante anche in relazione a quella capacità del traduttore che mai riduce (poeta e critico) i testi tradotti ad un puro e semplice pretesto di amplificazione della propria immagine prevaricante e falsificante. Per non dir poi di come l’organicità e la capacità di «distinzione» e articolazione dei propri esercizi ed impegni – anche a livello di forme di stile e di linguaggio – sia altro carattere della serietà, complessità, «organicità e razionalità» di Montale, con raccordi interni in tutte le impostazioni diverse fra critica, «atti di fede», prosa poetica e poesia.

Basti ricordare, per quello che sopra si diceva, fra gli scritti ora raccolti in Autodafé (silloge e quasi parte di un montaliano zibaldone[8] che tanto può aiutare a capir specie la rete di problemi culturali, letterari ed etico-civili entro cui si è sviluppata la poesia della Bufera e magari della piú recente Botta e risposta) il raccordo profondo fra le affermazioni fatte in Stile e tradizione del 1925 sul Baretti gobettiano e altre recenti o recentissime. In quel lontano articolo si esprimeva l’esigenza di una comprensione storica e organica di risultati supremi di un’arte mai fuori dell’opera che essi coronarono e giustificarono, mai fuori della tensione culturale e letteraria di lunghi tempi («il Manzoni fu il punto di arrivo di un ramo secolare della cultura cattolica», «il Leopardi stesso sarebbe incomprensibile se non conoscessimo le eccezionali componenti illuministiche e umanistiche della sua formazione»[9]). Mentre, fra le dichiarazioni piú recenti, in un articolo del 17 gennaio 1965[10] si affermava che «l’orrore per gli astratti contenuti, la giusta convinzione che la poesia si fa con le parole, la musica con le note, la pittura con i colori ha messo in ombra ciò che i nostri padri sapevano da secoli: e cioè che la poesia non si fa soltanto con le parole, la musica non si fa soltanto con i suoni e la pittura non si fa unicamente con disegno e colori». E ancora (22 novembre 1958) Montale scriveva: «Ammettiamo pure che le manifestazioni non figurali delle arti visive abbiano avuto il merito (o l’effetto) di porre in crisi l’arte figurativa, l’abbiano resa piú che mai difficile, e ammettiamo altresí che da almeno cent’anni, per la suggestione che le viene dalle altre arti, la poesia stessa si sia fatta sempre meno mimetica, meno rappresentativa. Resta pur sempre la speranza che l’arte delle parole, certo inguaribilmente semantica, presto o tardi faccia sentire il suo contraccolpo anche sulle arti che pretendono di essersi affrancate da ogni obbligo verso l’identificazione e la rappresentazione del vero»[11].

E ancora (20 aprile 1946): «Un’opera d’arte che non modifica in nulla la nostra vita... non è un’opera d’arte»[12].

E infine, in un articolo del 28 maggio 1949 (Autodafé, pp. 136-137), ancora un’affermazione che, pur escludendo il valore del facilmente ricordabile, batte insieme sul carattere di «modificazione» attiva dell’arte e sulla vita di questa, libera e storica, segno della sua «formale» conquista: «Non c’è frase musicale o poetica, figura dipinta o raccontata che non abbiano “fatto presa”, che non abbiano inciso su una vita, modificato un destino, alleviato o aggravato un dolore. Ha adempiuto il suo fine e ha raggiunto la forma qualsiasi espressione che abbia avuto, presso qualcuno, un effetto taumaturgico, liberatore, un effetto di liberazione e di comprensione del mondo».

Proprio cosí la poesia di Montale appare meglio ora (rivista com’è in tutto il suo percorso dal lontano 1916 all’ultima poesia pubblicata, Botta e risposta, del 1962) appunto come una poesia che modifica, trasmuta, che ha modificato, trasmutato (non c’è una importante consonanza leopardiana nelle stesse montaliane considerazioni sul carattere attivo della poesia e sul carattere degli effetti poetici?[13]); ed è stata piú che una voce o un colore sentimentale del tempo, la essenziale poetica coscienza drammatica di un lungo arco storico, gremito di vicende drammatiche. Anzitutto la prima guerra mondiale: cui Montale partecipò giovanissimo e in cui portò in piú esplicita evidenza almeno qualche segno, come sempre, lacerante e fulmineo, entro il recupero di memoria attiva ed antielegiaca delle Occasioni:

alla mattina

quando udii tra gli scogli crepitare

la bomba ballerina...

ai colpi

d’oggi lo so, se di laggiú s’inflette

un’ora e mi riporta Cumerlotti

o Anghébeni – tra scoppi di spolette

e i lamenti e l’accorrer delle squadre[14].

Poi l’avvento del tetro dominio della dittatura: l’epoca in cui Montale firmò il manifesto crociano degli intellettuali antifascisti, rifiutò ogni adesione alla tirannide e collaborò con quei «badilanti» piú o meno «fiacchi» intesi a sbrattare il letame «fecale» che aveva sommerso le italiche «stalle di Augia». Poi l’avvio della tragica crisi della dittatura nella sua alleanza con il nazismo: di cui La primavera hitleriana traduce l’orrore barbarico, diabolico e la contaminazione generale di violenza e di stravolgimento:

Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale

tra un alalà di scherani, un golfo mistico acceso

e pavesato di croci a uncino l’ha preso e inghiottito,

si sono chiuse le vetrine, povere

e inoffensive, benché armate anch’esse

di cannoni e giocattoli di guerra,

ha sprangato il beccaio che infiorava

di bacche il muso dei capretti uccisi,

la sagra dei miti carnefici che ancora ingorano il sangue

s’è tramutata in un sozzo trescone d’ali schiantate,

di larve sulle golene, e l’acqua seguita a rodere

le sponde e piú nessuno è incolpevole.

E proprio in quest’avvio di tragedia il poeta apriva – proprio perché nel profondo e nella desolazione della tragedia – una amara, severa volontà di speranza:

Forse le sirene, i rintocchi

che salutano i mostri nella sera

della loro tregenda, si confondono già

col suono che slegato dal cielo, scende, vince –

col respiro di un’alba che domani per tutti

si riaffacci, bianca ma senz’ali

di raccapriccio, ai greti arsi del sud...

Infine la seconda guerra mondiale con le sue emergenze storiche e personali, fino al pur drammatico insorgere delle brevi ardenti speranze del ’45, contrassegnate da scritti ben chiari entro Autodafé[15] (quando Montale aderí al partito d’azione e poi alla democrazia repubblicana) e l’epoca del predominio clericale, l’incubo della guerra atomica, l’incombere di effettive o possibili nuove varie oppressioni sulla vita, sulla cultura, sulla poesia. (Piccolo testamento, e Sogno di un prigioniero:

La purga dura da sempre, senza un perché.

Dicono che chi abiura e sottoscrive

può salvarsi da questo sterminio d’oche;

che chi geme ed obiurga

e confessa e denunzia, afferra il mestolo

anziché terminare nel pâté

destinato agl’Iddii pestilenziali.)

Poetica coscienza drammatica della nostra storia, di cui la poesia di Montale ha sofferto ad ogni livello la condizione personalmente sperimentata (donde la pienezza della sua base di Erlebnis e non di semplice qualunquistico Leben) indicandone gli estremi con severa chiarezza di giudizio, ma insieme approfondendone, con i mezzi della piú strenua operazione poetica (via ogni enfasi, ogni proclama, ogni documentarismo e via insieme ogni semplice illustrazione ed ornamento pretestuale e formalistico), la realtà piú segreta e generale di cui quegli estremi erano e sono aspetti non totalmente esaurienti, segni storici di un male esistenziale, la condizione di crisi dell’esistenza, attinta sino in fondo, con stoica fermezza, mai assaporata con compiacimento morbido e reazionario, ma anzi totalmente espressa per ricavarne un «no» energico e virile ad ogni frivolo idillio, ad ogni frivolo sentimento, ad ogni frivolo vitalismo, «no» radice essenziale di ogni volontà disillusa, di ogni speranza, non mendace ed essa stessa tormentosa e autocritica: con quanti complessi problemi etici, culturali, letterari che variamente vi confluiscono, sempre coerentemente tradotti e appuntiti nella autentica, intera forza della poesia[16].

Tanta forza e densità di poetica coscienza drammatica della storia (e quindi anche contro la storia, ma mai fuori della storia, mai fuori dell’uomo e della sua intera concretezza), tradotta interamente nel segno supremo del ritmo poetico e della sua tenuta profonda, non è dato facilmente allo storico di ritrovare nella nostra tradizione moderna e contemporanea dopo l’epoca di Alfieri, Foscolo, del Manzoni piú drammatico e soprattutto del grandissimo Leopardi, al cui richiamo (pur con tante diversità storiche e personali) anche parecchi collaboratori dell’omaggio di «Letteratura» variamente ma giustamente ritornano.

Naturalmente qui (ma questo discorso di motivato e meditato omaggio non può essere per tante ragioni un saggio analitico di poetica e di poesia) occorrerebbe rimettere in movimento questa formidabile esperienza poetica in tutto il suo complesso attivo dispiegarsi e consistere, fino alla capillarità dei gruppi di poesie e delle singole poesie e della loro interna tensione agli esiti interi di intera organicità poetica.

Basti almeno accennare anzitutto all’estrema forza di rottura e di concreta novità della prima fase della poesia montaliana fra il 1916 e il 1925, in Ossi di seppia.

Complesso sarebbe il quadro dei punti di partenza, e piú di contrasto, della poesia di Ossi di seppia nella situazione della letteratura italiana intorno alla guerra e al dopoguerra e, dietro, l’accrescersi progressivo, al di là di Ossi di seppia, delle esperienze europee fra le offerte francesi del simbolismo, con alle spalle una certa zona Vigny-Baudelaire, e quelle sempre piú forti di testi della «Mitteleuropa» ottocentesca e novecentesca, e di quelli anglosassoni della base Keats-Shelley ai recuperi indietro degli elisabettiani e in avanti tra Browning e i novecenteschi su su fino a Auden, e agli americani da Poe in su: con la conclusione per me assai importante di una piú vasta apertura europea con cui Montale contribuirà, già intorno a «Solaria», a far superare le piú immediate conclusioni della linea «francese-italiana» postsimbolistica e di cui la sua stessa poesia si rafforzò in direzioni assai diverse da quelle pur cosí importanti di tipo marinettiano e magari ungarettiano.

Ciò che conta ovviamente è il modo storico-personale con cui Montale, pur tra certe frange e residui di pascolismo e dannunzianesimo[17], di fatto rovesciati da lui in una tanto diversa impostazione, riassorbí certa lezione etico-lirica della zona prevociana e vociana ed ardente (fra Michelstädter: «Il porto è nella furia del mare», e il Boine di Frantumi, punta avanzata anche di quella poesia ligure[18] che Montale ha apertamente indicato congeniale e «confermante» la sua prima vena). Mentre dalla esperienza dei crepuscolari (dalla loro prosa-poesia) la sua poesia poteva pur trarre una spinta a quella volontà di «mezzi nuovi rispetto alla tradizione» che si tradusse originalmente in un linguaggio e in un ritmo non interamente monotono e costante, ma centralmente (è lí che bisogna guardare) interiormente rivoluzionario, arduo, aggressivo, antiretorico, scabro e denso, diverso dalla melodia e dal canto e non perciò privo di una profonda ricerca musicale (piú ritmo che canto[19]), mosso da un intimo attrito di sentimenti dolorosi e stoici, perentori nella negazione della vita frivola, vana e crudele, dell’ottimismo e del puro vitalismo ebbro di gioia e avido di sensuale espansione (che può in qualche modo risentirsi semmai nel troppo lodato Mediterraneo), cosí come di ogni idillio intenerito e pacificante, sfiorato magari a contrasto. Come accade per la saggezza, sempre però superata dalla forza predominante del «no», della coscienza e della volontà che portavano dalla vita al male di vivere e dell’esistenza (l’incartocciarsi della foglia riarsa), identificati in oggetti di condanna e di immobilità di una natura ferrea e calcinata contro cui il poeta cercava il movimento, la mareggiata del mare (natura contro natura sempre nella dialettica sofferta dell’uomo) o la forza volitiva del vento di «tramontana» per scuotersi dal nulla e dall’inerzia di una vita disseccata dal simbolico e vero «scirocco»: miti sofferti e concreti, interamente fisici nella loro simbolicità morale e vitale («sono un albero bruciato dallo scirocco anzi tempo», dirà nel ’26 a Svevo[20]) in una poesia d’altronde cosí chiaramente antimimetica.

Sicché il «no» di Montale, il suo rifiuto stoico della parola della certezza e della sicurezza, del pianto-canto di pace, dell’idillio della felicità, si presentava – anche quando poteva giungere al desiderio di annientamento – cosí eccezionalmente denso di realtà, di fisicità, di esperienza sofferta, era l’opposto di ogni evasione compiaciuta e scorporata, anche se ricco di eccezionale movimento fantastico visionario. Poesia «a denti stretti», costruita «come il muretto a secco», ha detto Montale della sua volontà di poesia in Ossi di seppia[21]. E in quel supremo rigore, centralmente mai solo parnassiamente raggelato o viceversa consolato o ammorbidito, viveva una posizione etico-storica di eccezionale intensità e importanza, già qui (seppure meno consapevole e approfondito) nodo della drammatica complessità montaliana: il «no» era implicitamente un «no» ad una situazione storica (dalla guerra al fascismo) ed insieme (a livello piú profondo) era un «no» alla falsità della vita (nel circolo assoluto fra «lo scialo di triti fatti, vano piú che crudele», e la conferma nella stessa poesia, Flussi: «e la vita è crudele piú che vana»), un «no» alle inutili illusioni edonistiche ed eudemonistiche che il poeta condannava anzitutto in se stesso, testimone-martire della propria crudele e stoica condanna vitale («ch’io scenda senza viltà») o trasportava sino nei morti (uno dei filoni piú profondi della poesia montaliana) chiusi «in una fissità gelida», «immobili e vaganti» e pur privi di ogni riposo, tratti da una forza «spietata piú del vivere» a ricercare (con i loro «mozzi voli», «fiati senza materia o voce», «larve rimorse dai ricordi umani») le spiagge che abitarono «vivi».

È dall’irraggiarsi inconcluso delle proposte ultime di Ossi di seppia (una possibile uscita per «altri» dal chiuso della serrata desolazione del male di vivere e della impossibilità di intervento vitale, il colloquio senza pacificante risposta con la natura e con i morti) che si apre il nuovo periodo della poesia montaliana fra il 1925 e il 1939 (Occasioni). In questo nuovo periodo il rifiuto delle condizioni del tempo storico si fa piú consapevole e moralmente compatto, implicando il rifiuto energico della semplice vita indifferenziata e tentatrice, scendendo sempre piú nel profondo della condizione dell’uomo: la discesa nelle catacombe interiori del poeta «solo», la chiusura morale nell’impegno della concentrazione piú assoluta di posizione e linguaggio; e dunque una ben diversa via da quella dell’evasione disimpegnata o del rondistico neoclassicismo dello «stile totale» e della consolazione della bellezza della leggenda e del mito dorato e dell’edonismo artistico, al fondo, dello stesso «ermetismo» di tendenza mistica ed esoterica.

D’altra parte insieme si pronunciavano la necessità e la volontà ispirata di ricostruire – sulla base di quel rifiuto, di quel «no» sempre piú intero e sulla spinta di «occasioni» essenziali (legame con un tempo piú vero e profondo) – la compattezza della persona nei gesti di una decisione ancor piú profondamente stoica, di un recupero attivo del passato, nelle sue presenze irripetibili. «Non recidere, forbice, quel volto»: Montale è il poeta del «quello-questo» e dell’altro in «quello» sempre radicato e da «quello» inseparabile, della tensione imperiosa al «tu», al colloquio con persone e simboli effettivi di una piú vera realtà morale, sentimentale, persino culturale che «resiste», nella sua apparenza banale o preziosa («un ricciolo / di Gerti, un grillo in gabbia, ultima traccia / del transito di Liuba, il microfilm / di un sonetto eufuista scivolato / dalle dita di Clizia addormentata», nella severa reinterpretazione della propria poesia nella propria vita personale-storica di Botta e risposta).

E resiste per la forza intera della sua assoluta concentrazione nella poesia. Questa è continuamente riproposta e risperimentata, necessitata dal bisogno interiore di un movimento piú sicuro dei propri possessi essenziali, concretamente assoluti e garantiti contro la dispersione del fluire di triti fatti e della memoria che non sceglie: tra la forma breve e schematica dei Mottetti e quello sviluppo piú dinamico e complesso delle liriche-racconti in cui (fra il Carnevale di Gerti e Notizie dall’Amiata) è di nuovo da trovare la via aperta alla successiva poesia montaliana, al di là del «tu», del «lungo colloquio coi poveri morti», dell’interiorizzazione degli oggetti e del paesaggio in una memoria «attiva» e mai semplicemente evocatrice e consolatrice.

Tra Finisterre e la Bufera (che Montale – si ricordi bene – ha indicato recentemente come il «suo libro forse migliore)[22]» la poetica coscienza drammatica dell’esistenza e della storia si esprime (non si diluisce, esteriorizza) in una poesia ricchissima di possibilità, di tentativi profondi, di anelli e strati piú evidenziati e piú segreti, raccordati al centro di una suprema lotta interiore, di un tormento dinamico (il «mareggiare» piú interno della poesia di Montale) che avvia e poeticamente risolve (tutt’altro che una tensione irrisolta in esiti consistenti, tutt’altro che un’inerzia di coerente ed intima elaborazione e rinnovamento di linguaggio e di ritmo) entro una libera-necessaria spinta creativa, molteplici modi di nuovo sviluppo della problematica storico-personale di Montale, della sua coerente inesausta ricerca interamente artistica di vie di esplorazione e di conoscenza della realtà e dei limiti radicali e storici della condizione dell’uomo, di drammatica apertura di speranze e di affermazioni di salvezza non frivole e non pacificatrici.

Qui tutta la forza montaliana è tesa al massimo, nella sua massima complessità (non ambiguità) di significati e di soluzioni poetiche, nella sua massima compattezza.

E nel centro piú intimo della sua concreta Erlebnis si passa dal «tu» delle Occasioni ad una volontà di colloquio con «tutti» e di discorso poetico per «tutti», che pur presuppone sempre necessariamente il «tu» concreto e l’irripetibile individualissima radice dell’«ogni», attraverso slanci e ricadute, attraverso aperture e chiusure sempre piú ad alto livello, attraverso la realtà delle «donne» concrete – ideali, attraverso l’aspirazione al divino, attraverso l’aspirazione «all’alba del domani che per tutti si riaffacci», attraverso la tensione alla fraternità e all’amore severo per tutti gli uomini e per tutti gli esseri viventi, attraverso il nuovo e piú profondo colloquio con i morti.

Mentre tutte le vie tentate continuamente ripropongono la loro difficoltà, la vita e la storia ripropongono la loro vanità e crudeltà particolare e universale e provocano un piú profondo tormento, un piú energico «dubbio» che sono poi, a ben vedere, la garanzia suprema della natura severa del classicismo antidillico della poesia di Montale. E che, persino sulla via della singolarissima religiosità e magari di bisogno di un Dio – ma in realtà pur sempre un Dio tutto bisognoso degli uomini e piú forza interiore dell’uomo che assoluta postulazione di una vera doppia realtà[23] – resecano ogni pericoloso moto veramente evasivo, ogni impuro «brivido» di generica inquietudine o di consolazione mistica o tepidamente umanitaria, ogni compiacimento dello stesso stato di «aspirazione» e di «delusione».

Questo va detto, mi pare, a chiarissime note: la suprema serietà e severità montaliana si esprime in questi supremi atti poetici non solo attraverso il giudizio che il poeta sempre porta sulla realtà e sulla storia e sulle sue stesse aspirazioni e speranze, ma attraverso la garanzia nobilissima del suo persistente approfondito intransigente pessimismo, molla, a ben vedere, del suo stesso rigore artistico, del suo centrale rifiuto di ogni abbassamento della poesia a documento o messaggio eloquente, e di ogni compiacimento «estetico» per la consolazione della «bellezza» e della «gioia».

Nessun rasserenamento definitivo, nessuna pacificazione che chiuderebbe ogni piú vera ragione di vita e di poesia.

In Montale c’è la stoffa superiore dei Vigny e dei Leopardi in una storia che potrebbe toccar magari Baudelaire e persino i momenti piú severi di certo Carducci tardo o di certo Brahms fra Parzengesang e Nänie. E questi parzialissimi avvicinamenti accennati, pur suscettibili di tante differenziazioni, importano, per me, una delle ragioni del nostro riconoscimento della grandezza di Montale in una prospettiva storico-letteraria amplissima, in un’ideale indicazione della radice di ogni verità di grandezza e di profondità umana specie nel tragico mondo moderno, in «questa terra folgorata dove / bollono calce e sangue nell’impronta / del piede umano», nella «cellula di miele / di una sfera lanciata nello spazio» involta totalmente dalla Galassia «fascia di ogni tormento»: la radice del pessimismo, del pessimismo attivo e coraggioso (non del semplice scetticismo e tanto meno della voluttà della disperazione), della speranza senza illusioni mendaci, che Montale fa vivere sempre piú interamente, e sin nelle sue ultime conseguenze, nella sua ultima poesia[24].

Di questo sono documenti poetici altissimi in questa zona piú recente specie le poesie ispirate al fitto, insistente colloquio coi morti, con i morti amati e concreti («quelle» mani, «quel» volto di A mia madre o i «volti ossuti» delle «vecchie serve», i «musi aguzzi» dei «cani fidati» dell’Arca, o il padre «senza scialle e berretto, della Voce giunta con le folaghe, dove insieme si esclude e condanna «la memoria che non giova», «letargo di talpe», «abiezione che funghisce in sé»). Si spalanca (come nella Ballata scritta in una clinica) l’«enorme presenza dei morti» e uno spazio solo accoglie ed assimila vivi e morti in una dimensione di «compresenza» che insieme annulla ogni baldanza vitalistica e tanto piú impegna i vivi nella loro vita tragica e doverosa anche per far viver i morti senza compiangerli e cosí lasciarli veramente morti e perduti.

Motivi profondissimi, assicurati nella loro decisività dal rifiuto di ogni sentimentalismo elegiaco o di idillio oltremondano.

Cosí come la «speranza» non rifiuta (e pur tormentata e continuamente esposta alla sua delusione e negazione) e la stessa aspirazione alla fraternità e all’amore che deve congiungere tutti gli esseri viventi, mentre richiedono la severità del giudizio sulla storia e la scelta dei «propri» («ognuno riconosce i suoi»), si nobilita e si fa «vera» nella sua sofferenza e difficoltà suprema. Cosí nelle vette di questa poesia: Il gallo cedrone («sento nel petto la tua piaga sotto un grumo d’ala», «la gemma delle piante perenni, come il bruco, luccica al buio») o quel capolavoro della poesia contemporanea che è L’anguilla:

L’anguilla, la sirena

dei mari freddi che lascia il Baltico

per giungere ai nostri mari,

ai nostri estuari, ai fiumi

che risale in profondo, sotto la piena avversa,

di ramo in ramo e poi

di capello in capello, assottigliati,

sempre piú addentro, sempre piú nel cuore

del macigno, filtrando

tra gorielli di melma finché un giorno

una luce scoccata dai castagni

ne accende il guizzo in pozze d’acquamorta,

nei fossi che declinano

dai balzi d’Appennino alla Romagna;

l’anguilla, torcia, frusta,

freccia d’Amore in terra

che solo i nostri botri o i disseccati

ruscelli pirenaici riconducono

a paradisi di fecondazione;

l’anima verde che cerca

vita là. dove solo

morde l’arsura e la desolazione,

la scintilla che dice

tutto comincia quando tutto pare

incarbonirsi, bronco seppellito;

l’iride breve, gemella

di quella che incastonano i tuoi cigli

e fai brillare intatta in mezzo ai figli

dell’uomo, immersi nel tuo fango, puoi tu

non crederla sorella?

È qui che culmina lo slancio drammatico pessimistico-fraterno di Montale, qui si esprimono poeticamente gli esiti supremi del suo lungo sviluppo poetico in una profondissima originalità e densità di linguaggio e di ritmo. Qui tutta la luce interna, tutta la musica interna, tutta la concretezza del lessico interno, tutta la densità e il movimento del ritmo interno – suprema prova di ogni vera poesia – sono risolti unitariamente entro una articolata dinamica organicità che serra tutto il componimento in un unico periodo terminato nella parola suprema e nella domanda drammatica e affermativa.

Cosí la poesia di Montale rivela la sua condizione essenziale: la fecondità può nascere «là dove solo morde l’arsura e la desolazione», là – non altrove – può scoccare la luce fulminea della poesia come quella della stessa vita umana e della sua strenua volontà di una resistenza tenace alle illusioni mendaci e alla semplice disperazione inattiva: «Tutto comincia quando tutto pare incarbonirsi...». Da una simile altezza non si può non comprendere anche (io l’ho detto già da tempo e l’ho dichiarato di nuovo nella mia testimonianza nel volume di «Letteratura»[25]) la lezione poetica-morale delle stesse Conclusioni provvisorie (Piccolo testamento, Il sogno del prigioniero) e magari dello stesso «dopo» di Botta e risposta.

Né credo che possa davvero essere amata la poesia di Montale senza una comprensione profonda di ciò che essa, attraverso la sua realtà interamente poetica, ci dice persino sui nostri stessi pericoli, specie per chi creda essenziale ad ogni poesia e ad ogni costruzione civile la radice della dignità e libertà personale[26], del rigore dell’anticonformismo, del pessimismo attivo, della voce intransigente della coscienza.

E, infine, chi potrebbe dimenticare, per ben capire tutto Montale e la natura del suo stesso pessimismo (per noi cosí incoraggiante, che alcuni di noi hanno usato chiamarsi, magari con affettuosa scherzosità, fra aspirazione ideale e scelta di linea poetica, «leopardiano-montaliani»), la tenacia profonda della mai smentita fedeltà di Montale alle vere forze dell’uomo?

La forza della poesia e quella forza della ragione, di cui egli cosí fervidamente, energicamente parlò nelle altissime parole di una commemorazione del Croce: «Non ci troverà mai indifferenti la sua fede nell’uomo, la sua certezza che le forze della ragione non saranno mai definitivamente debellate»[27].

Certo quelle parole non erano «occasionali» come non è occasionale (seppure in un dialogo tanto diverso da quello fra quei due protagonisti della nostra storia culturale e civile) la nostra assicurazione a Montale che mai ci troverà indifferenti la sua altissima poesia con tutte le sue interne ragioni morali, culturali, letterarie e civili.

Perciò, permettici, o caro, accettando questo nostro omaggio, di ringraziarti piú direttamente e dal profondo dell’animo, di tutto ciò che hai dato alla nostra vita e alla vita del nostro paese, e permettici anche di ringraziarti – spero non del tutto invano per te, certo tutt’altro che invano per noi – di esserci potuti chiamare e di poterci sempre chiamare tuoi amici.


1 Il presente discorso fu letto, solo in parte e senza naturalmente le note poi aggiuntevi, davanti a Montale, il 7 giugno 1966 a Firenze, nella sede del Gabinetto Vieusseux.

2 È espressione essenziale nella prosa poetica della Bufera, Visita a Fadin, essenziale nella prospettiva di un comportamento che contiene l’impeto, lo sdegno, lo scatto morale, riserbando la forza profonda di quelli per atti necessari e tanto piú perciò responsabili e severi. Di fronte a molti, e spesso grandi, «attori» della sua generazione, Montale è il piú lontano da ogni impiego teatrale di sé: donde, ripeto, l’estrema severità della sua poesia, la forza austera della sua stessa alta eloquenza. Anche da un punto di vista umano la figura di Montale ha uno spicco eccezionale, virile; intensamente drammatico, quanto piú elude la confessione pettegola, quanto piú smussa volutamente ogni tentazione di autoesaltazione e di accentuazione delle proprie vicende. Si pensi cosí al modo con cui Montale, in una recente intervista televisiva fattagli da Leone Piccioni, riduceva al minimo il suo peso di antifascista considerato «poco pericoloso»: «Mi hanno detto che in un rapporto all’OVRA, scritto da una persona che io conosco, io fui definito, tutto sommato, poco pericoloso... Questo è vero, se non sono andato a Lipari o a qualche altra villeggiatura insulare». E aggiungeva circa gli accenni antifascisti della sua poesia: «Forse passavano inosservati. Non so, non vorrei atteggiarmi da eroe. Ma ci fu soltanto un po’ di miseria e di disavventure varie, e di scoraggiamenti. Non piú di questo».

3 Op. cit., passim. Può essere aggiunta interessante al Colpevole quanto Montale ha detto nella citata intervista televisiva: «Io entrai al Vieusseux per una strana ragione. Il presidente era P.E. Pavolini, ancora non accademico (allora non esisteva ancora l’Accademia) e portò al Conte Giuseppe della Gherardesca una terna di possibili direttori. Era il podestà di Firenze, e il mio nome era il terzo. Lui disse a Pavolini: “Sono iscritti al Partito?”. E Pavolini disse: “Soltanto i primi due”. E allora Gherardesca disse: “Io scelgo il terzo”. E fui scelto. Quindi io trovai un impiego perché non avevo la tessera fascista. E per questo stesso motivo dieci anni dopo lo perdetti. Tutto si compensa, tutto si paga insomma». Dove scatta piú apertamente l’humour montaliano, il suo gusto di riduzione di vicende personali entro una rete di «strane ragioni», di equivoci, di casi a sorpresa, ribaltabili. La stessa poesia è (specie in questa piú recente volontà di confessioni reticenti e spesso svianti, paurose di «chiavi» troppo sicure o prevaricanti o irriguardose del pudore e del riserbo delle ragioni private) riportata a una vita (almeno successiva alla sua nascita) di equivoci che è vano contestare e chiarire. Cosí a proposito di certe interpretazioni di sue poesie e di alcuni fatti di esse, Montale, nella intervista citata, dice che quando certe interpretazioni circolano, l’unica cosa da fare «è di accettarle. L’arte vive e sopravvive anche attraverso gli equivoci; anzi, alcuni dicono: soltanto attraverso gli equivoci, e bisogna lasciarli stare». Dove risulta insieme come questo non sia poi il piú vero punto di vista di Montale, ma una specie di tollerante accettazione di cose che non vale la pena di combattere. Alla fine il poeta, per lui, non è debitore al suo pubblico di spiegazioni e rettifiche, del filo d’Arianna del suo poetico labirinto.

4 Alla ripresa di «Letteratura», dopo la guerra e la caduta del fascismo, Bonsanti poteva giustamente ricordare che quella rivista non aveva fatto nessuna concessione alla dittatura e ringraziare anche perciò gli editori Parenti «suoi coraggiosi editori dal 1937 al 1943».

5 Cfr. Nota sul Canzoniere di Saba (1946) in questo volume alle pp. 195-206. In certo senso quel montalismo di Saba costituiva una singolare vittoria di Montale, se si pensa a quanto Montale stesso aveva detto in una lettera a Svevo circa l’incomprensione sabiana di Ossi di seppia (cfr. E. Montale e I. Svevo, Lettere, Bari, 1966, p. 63: «Ossi di seppia, un libro di cui Saba non ha capito una sillaba»).

6 Comunque lo snobismo montaliano (particolarmente forte nel periodo piú apertamente cosmopolitico di Montale fra Occasioni e molta parte della Farfalla di Dinard) ha pure una radice etica e sin etico-politica da non sottovalutare: si ricordi, ad esempio, la prosa della Farfalla, Il signor Stapps; con l’esaltazione (e l’ironia) da snob che rendeva omaggio (nell’epoca della dittatura nazifascista e della loquela morbosa, razzista e nazionalista di «radio menzogna») alle «nugae di una cultura che tentava di sopravvivere ai padroni del momento»: per quel fatto eravamo «convinti che nel mondo una finestra era ancora schiusa» (La farfalla di Dinard, Milano, 1960, pp. 104-105). Sarebbe poi grave errore isolare quella componente variamente attiva, e perder di vista i centri piú energici e profondi della personalità montaliana: l’inesausto scatto morale, il pessimismo che non riduce mai la forza visionaria e creatrice di immagini, ritmi, gesti perentori, assoluti, la forte razionalità, che «sceglie», anche quando la ramificazione ironica e persino preziosa può apparire prevalente e piú ambigua.

7 Cfr. E. Montale e I. Svevo, Lettere cit., p. 63, 3 dicembre 1926 («Non si meravigli che possa esistere un temperamento polarizzato nel senso della lirica e della critica letteraria: da Baudelaire a Eliot e a Valéry, a quanti è toccato la stessa sorte?»).

8 Anche se può sino irritare in certe parti di Autodafé (come in molte delle piú recenti prese di posizione del «Corriere della Sera») certa insistenza eccessiva di Montale in polemiche che sembrano finire per dar troppo peso a manifestazioni di mode assai transeunti e spesso frivole. Eppure questa battaglia, fra puntigliosa ed ironica, ha un suo senso proprio là dove il consumo e il dubbio mecenatismo «accettano» o «subiscono» a occhi chiusi i prodotti «nuovi» su di una linea di indifferenza ornamentale cui corrisponde il fondo qualunquistico di tanta sedicente avanguardia.

9 Autodafé, Milano, 1966, p. 18.

10 Autodafé cit., p. 94.

11 Autodafé cit., pp. 142-143.

12 Autodafé cit., p. 182.

13 Penso soprattutto in tal senso ai grandi pensieri dello Zibaldone del 1823 che puntano sugli effetti poetici energici, stimolanti e trasmutanti, e non solo purificanti e rasserenanti (si ricordi sopra, in Montale, «alleviato o aggravato un dolore»).

14 «Bomba ballerina», «Cumerlotti e Anghébeni»: Montale sentí il bisogno di indicare nelle rare, sintomatiche note di Occasioni la realtà del primo riferimento alla sua partecipazione alla guerra ’15-18. E certo le annotazioni autentiche del poeta permetterebbero la comprensione di tanti riferimenti riassorbiti e operanti nel testo (si pensi agli «sciacalli di Modena» e all’articolo esegetico-ironico sul «Corriere della Sera» del 16 febbraio 1950, in cui spiega il riferimento anche di Cumerlotti e Anghébeni). Ma del resto anche certe indicazioni da parte del poeta non sempre fruttano se il critico non vuole servirsene, come è pure avvenuto in casi assai significativi.

15 Si vedano, fra gli altri, i chiari scritti del ’44-45 ripubblicati in Autodafé: L’Italia rinunzia?; Una «tragedia italiana»; Augurio; La ruota della fortuna; Voci alte e fioche, pieni – in un rapido arco di speranze e delusione incipiente e spesso disperatamente preventiva – di denunce e diagnosi perentorie pur nella varia iridatura dell’ironia e del sarcasmo, rotto poi a volte in omaggi commossi ed alti ad uomini come «Amendola, Gobetti, Gramsci, Rosselli», come Croce, o in proclamazioni di «volontà di rinascita», di «verità di sempre» («la verità che è nascosta nel cuore di tutti e che attende di essere riscoperta di generazione in generazione»), di «verità-poesia» («la seconda vista dell’arte che è sempre discriminatrice e non può prescindere dal senso del bene e del male»), della altezza della «filosofia delle cause perse, forse la piú gloriosa», della inseparabilità di «onore e successo», del dovere dei «chierici» di non piú «tradire» e di «orientare» con una «intransigenza che noi vorremmo addirittura manichea nel campo dei valori morali». E insieme, prestissimo, il sospetto di «un nuovo fascismo senza guerre e senza Mussolini» desiderato «dalle forze piú oscure del paese», del pericolo «direi quasi della tragica certezza che gli italiani non sapranno trar partito dalla catastrofe che li ha colpiti per svolgere fino in fondo le premesse rivoluzionarie del nostro Risorgimento». Ahimé, la delusione amarissima delle speranze del ’44-45 con dentro persino la radice nuova della divinità montaliana esasperatamente manichea; come ci spiega una frase di Augurio (19-20 settembre 1944): «la vecchia battaglia del bene col male, la lotta delle forze divine che combattono in noi con le forze scatenate dell’uomo bestiale, con le buie forze di Arimane. In noi e per noi si realizza cosí una divinità, terrestre dapprima e poi forse celeste e incomprensibile ai nostri sensi, che senza di noi non potrebbe formarsi e riconoscersi» (Autodafé cit., p. 66). Circa la capacità montaliana di capire l’implicazione piú profonda della storicità della sua poesia, e circa la sua volontà di limitarne onestamente le possibili amplificazioni agiografiche al di là della verità, si ricordi, nell’intervista televisiva piú volte citata, quanto Montale dice circa il «male di vivere» dell’Osso di seppia del ’21: «Nel ’21 il “male di vivere” non era ancora certamente il fascismo: era un male di vivere, diciamo cosí, esistenziale, cosí, una condizionale di vita».

16 Certo quegli «estremi» sono indicati nella stessa poesia (ciò che piú conta; per non dire delle prose con le loro definizioni sprezzanti e aristocratiche della figura chapliniana di Mussolini, il «furfante», il personaggio incolto e magistrale, senza sigla di alta follia, buffonesco e goffo e pur cosí capace di apparire a «qualcuno» uomo della provvidenza) con chiarezza e severità e spesso con quella violentissima forza di disprezzo che solo ai grandi poeti riesce di far vivere in poesia. Cosí sul fascismo nessuno ha usato parole cosí violente e senza appello (già in Occasioni la «fede feroce che distilla veleno» nella seconda parte di Dora Markus, ebrea) specie nella Bufera e nella tragica descrizione epico-grottesca di Botta e risposta:

Lui non fu mai veduto.

La geldra però lo attendeva

per il presentat’arm: stracolmi imbuti,

forconi e spiedi, un’infilata fetida

di saltimbocca. Eppure Lui

non una volta Lui sporse

cocca di mano o punta di corona

oltre i bastioni d’ebano; fecali.

Cosí sui «madonnari» e sul «tanfo acre che infetta le zolle a noi devote» del periodo del piú tetro clericalismo (Le processioni del 1949). Cosí sull’arrivismo postresistenziale (i «formiconi degli approdi» di Dopo di Botta e risposta e la «nuova palta» e le «zattere di sterco»). Cosí sullo stalinismo e sul «chierico rosso o nero» delle Conclusioni provvisorie. Vano ed errato sarebbe togliere a quegli «estremi» la loro storica chiarezza che non è vanificabile in una giustificazione di pura simbolicità di «altro», ma è via ad una condanna storico-esistenziale che conduce da un’epoca alla situazione umana in un nesso inseparabile di anelli e strati. C’è una databilità di certe situazioni ed espressioni, incancellabile. Il critico deve prenderne atto, gli piacciano o no quelle posizioni singole. A me paiono al fondo suscettibili di una versione assai diversa da quella di una pura e semplice involuzione scettica e reazionaria, incapace di dire qualcosa di importante anche a chi veda le cose con pari disperazione, ma con maggiore complessità e volontà di identificare mali ed errori anzitutto in quei «padroni di ieri, di sempre», di cui parla Montale nel madrigale fiorentino dell’11 agosto 1944. Non si dimentichi, per i rapporti letteratura-storia, nello scritto del ’45 su Il fascismo e la letteratura (Autodafé cit., p. 22), la punta polemica di Montale contro gli accademici della fascista «Accademia d’Italia» che «continuarono (“una volta messisi al sicuro all’ombra della feluca”) ad essere intimisti e crepuscolari o elegiaci, riscossero i loro stipendi ed affermarono privatamente che l’arte era un’“altra cosa”, che la politica non c’entrava per nulla». Dove affiora lo scatto morale di uno scrittore che non intende certo subordinare letteratura a politica, ma che insieme rifiuta quelle ipocrite separazioni.

17 Non si nega evidentemente quanto di modi pascoliani e dannunziani può ritrovarsi in Ossi di seppia (non in Occasioni e tanto meno nella Bufera), ma ciò che si nega è la consonanza centrale con direzioni pascoliane e dannunziane effettivamente capovolte. Recentemente nell’intervista televisiva piú volte citata, Montale ha parlato con molto distacco di Pascoli e D’Annunzio (tacendo di Carducci) in risposta ad una domanda circa i suoi rapporti con la famosa «triade». Pur tenendo conto dell’evidente volontaria riduzione al minimo delle ascendenze e della entità della sua cultura poetica agli inizi del suo lavoro («Ma... Gozzano l’ho letto poco», «alcuni credettero – per la prefazione ai Colloqui – che Gozzano fosse stato per lunghi anni il mio maestro e quindi io fossi un suo figlio culturale»), non si può negare validità alle sue dichiarazioni di «estraneo» alle influenze della «triade». Estremamente reciso sul Pascoli: «Mi sembrava un poeta certamente molto notevole, ma molto, troppo dolciastro per il mio temperamento. Troppo sentimentale, troppo dolciastro. Cosí questa era l’opinione che mi facevo io». Piú sfumato, e pur negativo, nei confronti di D’Annunzio poeta: «D’Annunzio sovrastava soprattutto come personaggio; era un mostro, un monstrum, diciamo cosí; quindi era difficile in quel momento rendersi conto del suo valore di poeta. È ancor oggi, credo, in discussione, e credo che un po’ di lui sia rimasto appiccicato a tutti i poeti che sono venuti dopo, ma d’altronde, come ho già accennato altre volte, senza Victor Hugo non sarebbe Baudelaire». Anche se nonmanca una nota di simpatia per l’uomo rivisto in una presunta capacità di autoironia e per il suo coraggio fisico (sicché «è piú gradito pensare a lui che a Pascoli»). Di Carducci qui non si fa parola (in Autodafé, p. 144, si accenna al risultato carducciano di una poesia «insieme culturale e ingenua»).

18 Ma il legame di Montale con la Liguria ha qualcosa di piú radicale che va dal congeniale paesaggio al comportamento morale (impensabile Montale nato e formato in un’altra regione d’Italia), e a certe tradizioni fra riserbo e profondo rigore di tipo giansenistico.

19 Certo il ritmo montaliano, se agli inizi può svariare anche verso consonanze impressionistiche (donde l’interesse della sua indicazione di Debussy nella sua formazione culturale, come egli ha detto nella intervista televisiva tante volte citata), ben presto si complica e irrobustisce verso consonanze assai diverse, con tipi di musica espressionistica, sarcastico-drammatica, di ben altra modernità novecentesca ed europea.

20 Cfr. Lettere cit., p. 63.

21 Cfr. la conversazione radiofonica Montale parla di Montale, a cura di S. Miniussi (2a trasmissione).

22 «La bufera segna per altri versi quasi un ritorno agli Ossi di seppia perché la teoria del correlativo obbiettivo, seppure io l’ho mai accettata, vi è quasi totalmente abbandonata. Vi è un’impressione piú immediata del sentimento, in molte poesie della Bufera; però senza quel tanto di romantico che c’era ancora negli Ossi di seppia. Per questo fatto io penso che in complesso la Bufera sia il mio libro migliore. Però, direi, è un libro che non si può leggere da solo: richiede la conoscenza dei due precedenti, assolutamente. Richiede la conoscenza degli antefatti, altrimenti non se ne può comprendere tutta la varietà e tutto il significato» (intervista televisiva).

23 Mi limito qui a ricordare alcuni passi montaliani che possono introdurre ad una migliore spiegazione delle posizioni del poeta in direzione di un’aspirazione ad un Dio, che, come è stato detto recentemente da un recensore anglosassone (in occasione della prima versione in inglese di una silloge di poesie di Montale), non ha nulla a che fare con concezioni confessionali e tradizionali (quelle a cui approda un Eliot), ma è un «rozzo diamante scavato nella roccia ignea dell’esperienza» e che potrebbe rimandare (pur con margini di ambiguità, ma non tali da autorizzare interpretazioni di tipo mistico-cattolico) a certe tendenze di teologie anticonformistiche fra recupero del divino dall’interno dell’uomo (magari sul tipo della proposta di Honest to God dell’anglicano Robinson), vie di conquiste del divino da parte di posizioni atee, percorsi dal «tu» al «tu-tutti» (la «compresenza» di Capitini). Per il tema dell’immortalità individuale si pensi del resto a un confronto fra la poesia A mia madre di Montale e l’omonima poesia del cattolico Ungaretti, si pensi a pagine della Farfalla come Sul limite (pp. 222-229) o come Angoscia con la precisa indicazione di p. 249: «Teoricamente sono contrario alla sopravvivenza e credo che sarebbe sommamente dignitoso se l’uomo e la bestia accettassero di sombrer nell’eterno Nulla. Ma in pratica – per eredità – sono cristiano e non so sottrarmi all’idea che qualcosa di noi può o addirittura deve durare. Il cane Galiffa ecc.». «Deve»: l’immortalità (che riguarda semmai uomini e bestie o non li riguarda alla pari come nell’argomentazione di Dedalo nei Paralipomeni) non è una certezza, è un’aspirazione, o un dovere, qualcosa che nasce dall’animo dell’uomo praticamente, senza nessuna attendibilità teorica, per forza pratica (ripeto), come è di Dio, scelta di bene contro male, creazione umana, secondo la pagina già citata da Autodafé.

Né si dimentichi poi la Lettera da Albenga, del 21 aprile 1963 (Autodafé, pp. 49-50), tutta da rileggere per le implicazioni morali che contiene e per il riferimento al privilegio dei poeti in senso hölderliniano.

Un accenno potente all’inclinazione al compromesso, al «pateracchio di un Dio dei fisici», porta anche a ridimensionare certa tendenza montaliana recente (si veda la Lettera a Luca Canali, in Autodafé) a puntare sulla parola «amore» con pericoli di indiscriminata pietà, cui osta il rigore fondamentale della moralità montaliana. In quella Lettera anche il credito, in verità eccessivo, alla chiesa («o alle chiese») è ridotto dalla cautela pessimistica montaliana («Ma chi sa? anche il progressismo religioso ha il suo doppio volto: può essere farsa o tragedia. Staremo a vedere: o meglio staranno a vedere i nostri lontani nipoti», Autodafé cit., p. 318).

24 Per questo pessimismo senza eccezioni si pensi alla chiusa della prosa L’uomo in pigiama (Farfalla di Dinard cit., p. 221) con lo scatto, senza possibilità di replica, della donna misteriosa e persuasa della sua verità assoluta: «Ho finito di passeggiare, signora. Ma come sa che sono un disgraziato?» dice l’uomo in pigiama. «Lo siamo tutti – disse lei e richiuse la porta di scatto». La conferma piú recente, in poesia, del pessimismo sostanziale (anzitutto per sé) e del carattere eccezionale, inaudito della «speranza», è costituita dal singolarissimo epitalamio del ’62, Ventaglio per S.F.:

L’epitalamio non è nelle mie corde,

la felicità non fu mai la mia Musa,

la sposa l’ho vista appena, un attimo, fra le sartie

di un trealberi giunto dal reo Norte

all’isola. Il mio augurio è dunque «a scatola chiusa».

Per lei, ma non per me, perché la boîte à surprise

è fatta per chi col suo nome decapitò Cassandra.

La gemma che v’è nascosta frutto di un’inaudita

mainmise del bene sul male, io l’ho chiamata Speranza.

25 Qui riportata alle pp. 283-288.

26 L’incontro fra il dovere di dignità personale e il dovere di un profondo, «religioso» senso sociale ben si trova indicato (entro un contesto storico assai significato per le successive posizioni di Montale) nel finale di Dominico, del ’46, nella Farfalla di Dinard cit., pp. 110-111. Come potrà il poeta far capire ciò che avviene ora in Italia a Dominico, l’anarchico i cui «principi vagamente democratici non gli avevano vietato di trovar simpatico il carnevalesco regime che gl’Italiani di allora s’erano dati» (frase essa stessa grave per l’intransigente e quasi outré bisogno montaliano di responsabilità: «s’erano dati»)? «Anima pura, anima innocente, Dominico Braga è uno di quelli uomini che rendono poco comprensibile, e persino poco desiderabile, l’umanità senza patria, senza confini e senza leggi dei classici dell’utopia. Uomini come lui possono sfuggire all’ordine costituito, possono evadere dalle maglie della storia solo in grazia al conformismo dei piú, solo perché esistono legioni di esseri che sopportano un’etichetta, un volto, un destino non soltanto individuali. E, d’altronde, la libertà dell’uomo singolo, la libertà che non è di tutti ma dell’uno “contro tutti” fino a che punto può interessarci? Io temo che Dominico, salvandosi da solo si perda da solo, e che colui al quale sfugge il senso religioso della vita associata, sfugga anche il meglio della vita individuale, dell’uomo stesso, che non è persona se non fa i conti con le altre persone, non è pienamente uomo se non accetta gli altri uomini. Ma sarà penoso spiegarlo a Dominico, in una lingua che dovrò fabbricarmi apposta per lui e in un momento in cui qualsiasi egoismo, qualsiasi anarchia dichiarata sembra preferibile alle speciose e fin troppo concrete e sociali elucubrazioni dei “grandi” che da lontano si stanno, purtroppo, occupando di noi e della nostra infelice penisola...».

27 Si veda il volume miscellaneo Benedetto Croce, Comunità, Milano, 1963.